Il Mobbing sul luogo di lavoro ricorre anche nel caso di condotte discriminatorie a carico della lavoratrice madre, volte a isolarla e marginalizzarla dal contesto lavorativa al fine di indurla alle dimissioni.

Risuta evidente, tuttavia, che le dimissioni non sono affatto espressione di libera volontà, quanto, piuttosto, l’unica scelta possibile.

1.Quando la mamma lavora

Sei una lavoratrice divenuta da poco tempo anche madre.

Ti sei assentata dal lavoro per il periodo di tempo a te concesso della maternità obbligatoria e, successivamente, anche della maternità facoltativa. Non te la sentivi, infatti, di lasciare tuo figlio di poco più di tre mesi per l’intera giornata dai tuoi genitori ovvero all’asilo nido.

Fai rientro presso il luogo di lavoro, dunque, circa un anno dopo averlo lasciato, pronta a riprendere in mano la tua carriera lavorativa. Noti, tuttavia, un ambiente del tutto diverso e degli atteggiamenti ostili da parte del tuo datore di lavoro e dei tuoi superiori.

La nascita di un figlio è già di per sé un evento delicato, a tratti traumatico, nella vita di una donna, colmo di preoccupazioni e cambiamenti. Se poi la neomamma è anche una lavoratrice, la situazione si complica. Ella ha, infatti, la necessità di conciliare i vecchi impegni di lavoro con quelli nuovi che un figlio impone. A ciò si aggiunga – e non è raro – un rientro al lavoro tutt’altro che sereno, carico quotidianamente di tensioni causate da condotte quali quelle appena sopra accennate.

Cerchiamo allora, di capire quando effettivamente ricorre il mobbing sul luogo di lavoro ovvero quando l’azienda ponga in essere condotte discriminatorie nei confronti delle lavoratrici madri e, soprattutto, le ragioni di un fenomeno così tanto esteso e grave, meritevole di tutela.

2. La condotta discriminatoria

Si immagini una donna che fa rientro al lavoro dopo il periodo di maternità e si trova esclusa dai propri colleghi e superiori, nonché dal datore di lavoro stesso.

Di punto in bianco e senza alcun preavviso la propria scrivania non c’è più o è occupata da qualcun altro o addirittura è stata spostata altrove. Ci si ritrova isolate, anche fisicamente.

A ciò aggiungasi, a titolo esemplificativo:

  • la svalutazione del lavoro svolto
  • l’esclusione dal gruppo di colleghi
  • le aggressioni  verbali

La discriminazione della lavoratrice madre, tuttavia, molto più spesso viene attuata dai datori di lavoro per il tramite di condotte più facilmente celabili, volte ad indurla, esasperata dalla pressione psicologica, a dimettersi.

  • trasferimento della lavoratrice in una sede lontana
  • contestazioni in merito alla concessione dei permessi per l’allattamento
  • contestazioni disciplinari pretestuose
  • rimproveri immotivati sull’operato e le mansioni affidate

Un comportamento del genere, reiterato nel tempo, integra una vera e propria condotta discriminatoria e vessatoria, volta ad escludere ed isolare il lavoratore così da costringendolo, dopo lunghi periodi di sopportazione, alle dimissioni volontarie dal posto di lavoro.

Si tratta di vero e proprio mobbing sul luogo di lavoro

3. L’elemento soggettivo

In una società lavorativa per decenni prettamente maschile, in taluni casi  si fatica ad accettare l’idea che una donna non soltanto possa ma soprattutto abbia il diritto di conservare il posto di lavoro e di conciliarlo con gli innumerevoli impegni e fatiche della maternità.

La lavoratrice madre diventa una sorta di zavorra: un soggeto che pregiudica e ostacola la produttività dell’azienda limitando il rendimento ed accrescendone i relativi costi. Infatti spesso l’azienda deve ricorrere a nuove assunzioni per sostituire le lavoratrici assenti per maternità

Occorre dunque sbarazzarsi di esse o meglio, fare in modo che siano le stesse a scegliere di andarsene costringendole alle dimissioni volontarie.

In tal senso si mettono in campo condotte anche di per sè possono assolutamente legittime e giusitficate che, tuttavia, reiterate nel tempo, diventano pretestuose, vessatorie e intollerabili.

Tanto che, per l’appunto, le dimissioni appaiono l’unica alternativa valida per sottrarsi ad un vero e proprio inferno.

4. Gli effetti della condotta discriminatoria e vessatoria

L’impatto delle condotte descritte è sempre considerevole traducendosi il più delle volte in patologie psico-fisiche: ansia, depressione, attacchi di panico, insonnia, solo per citarne alcune, in grado di pregiudicare l’intera esistenza del singolo soggetto e intaccare anche la sfera famigliare.

5. La tutela adeguata

E’ possibile agire in giudizio per ottenere l’immediata cessazione delle condotte vessatorie nonchè il risarcimento del danno subito.

Occorre fornire la prova

  • delle condotte subite
  • del danno patrimoniale e biologico che ne è derivato
  • del nesso causale (il diretto collegamento) tra la condotta e il danno

Per meglio comprendere la concretezza di condotte di tale tenore, si riporta di seguito il collegamento ad una Sentenza del Tribunale di Roma (num. 5166/2020) con la quale i giudici hanno condannato il datore di lavoro a risarcire alla lavoratrice madre vittima di condotte discriminatorie e denigratorie una cospicua somma a titolo di danno non patrimoniale.

Tribunale di Roma, Sez. Lav., 22 aprile 2021, n. 6996 – Parità di trattamento. Gravidanza e discriminazione (uniurb.it)